Articolo pubblicato sulla rivista GliAsini.
Come molti certamente ricorderanno, sin dall'avvio della Didattica a Distanza, il 4 marzo 2020, il Ministero dell'Istruzione propose alle scuole la scelta fra due piattaforme EdTech: una di Google e l'altra di Microsoft.
        
             
        
        
            La pagina dedicata alla DaD il 04 Marzo 2020 alle ore 20:30:07
        
	  
Una recente inchiesta
      di Stefano Zoja per “Altreconomia” ha 
      rivelato le conseguenze di questa sponsorizzazione ministeriale: 
      ben l'86% delle scuole italiane ha utilizzato per le varie forme 
      didattica a distanza e didattica integrata che si sono susseguite 
      negli ultimi due anni la prima piattaforma proposta, Google Suite 
      for Education. Anche a livello globale, la pandemia ha 
      raddoppiato la penetrazione di Google nella scuola, che è passata 
      in pochi mesi da 70 a oltre 150 milioni di utenti.
Da un punto 
      di vista cibernetico è importante distinguere la DaD, che ha 
      caratterizzato in questi anni lockdown e quarantene, 
      dall'integrazione sistematica di strumenti informatici 
      nell'attività didattica e nella cultura condivisa di un 
      Paese.
Prima che la pandemia facesse esplodere “il digitale”, 
      diversi strumenti informatici erano già presenti nella scuola 
      italiana di ogni ordine e grado: dal registro elettronico alle 
      chat di classe, fino alla più semplice condivisione di materiali 
      su supporti off-line e online.
Con la DaD (e la analoga Ddi), 
      tutta questa varietà di strumenti e canali di comunicazione è 
      stata sostituita per mesi con una singola piattaforma 
      centralizzata che, per gli studenti e i docenti costretti a casa, 
      ha di fatto rimpiazzato l'aula scolastica. Studenti e insegnanti 
      sono stati costretti a trasferirsi in questo nuovo “spazio 
      virtuale”, fatto di video conferenze, documenti, presentazioni, 
      “stream di classe” e filmati YouTube, imparando via via ad 
      aggirarne i limiti e ignorarne i disservizi per minimizzare 
      l'impatto sullo svolgimento delle lezioni.
Questa brusca migrazione della didattica non ha però prodotto 
      né una evoluzione metodologica né uno studio approfondito dei 
      sistemi cibernetici che la veicolano. Studenti e insegnanti si 
      sono trasferiti nella nuova scuola virtuale con la stessa 
      consapevolezza con cui installano un'App di moda, senza 
      comprenderne a fondo il funzionamento, i Termini del Servizio o 
      le conseguenze di lungo periodo.
Ma cosa ha ottenuto Google in 
      cambio di tanta generosa ospitalità? Un'analisi meramente 
      economica della questione non è sufficiente per 
      rispondere.
Gli insegnanti che hanno faticosamente imparato a 
      utilizzare gli strumenti messi a disposizione gratuitamente da 
      Google continueranno a utilizzarli nella didattica e resisteranno 
      alla proposta di alternative. Analogamente, gli studenti che li 
      hanno usati per anni a scuola continueranno a utilizzarli per le 
      proprie esigenze private e lavorative. Infine, per minimizzare i 
      costi di formazione interna, anche le aziende italiane saranno 
      convinte ad adottare gli stessi prodotti.
Ma per Google non si 
      è trattato semplicemente di conquistare un mercato notoriamente 
      difficile come la scuola, di ridurre la concorrenza a un ruolo 
      marginale o di imporre un lock-in fortissimo che avrà gravi 
      ripercussioni sulla bilancia commerciale del nostro Paese nei 
      prossimi decenni. Il business model di Google è definito da 
      Shoshana Zuboff della Harvard Business School come “Capitalismo 
      di sorveglianza”. Si tratta di un modello d'impresa basato 
      sull'accumulo di grandi quantità di dati riguardanti ciascun 
      utente, sulla creazione di accurati profili psicologici e sulla 
      vendita dei cosiddetti “behavioral futures”, ovvero accurate 
      previsioni statistiche delle reazioni di singoli individui a 
      determinati stimoli e informazioni.
Già da prima e al di là del suo ingresso nell'EdTech, Google 
      raccoglie questi dati attraverso una miriade di servizi e 
      prodotti: dalle caselle Gmail, dalle ricerche online (di cui 
      gestisce l'88% in Italia), dai tracciatori di Google Analytics 
      (oltre l'80% dei siti web italiani e delle App Android), dai 
      video visualizzati da ciascun utente su YouTube. Attraverso le 
      App preinstallate nei cellulari Android (il 72%), Google tiene 
      traccia di ogni chiamata effettuata e ogni sms inviato. E 
      ovviamente attraverso il browser Google Chrome, usato da oltre il 
      66% degli italiani, che invia presso la casa madre qualsiasi cosa 
      venga digitata sulla barra dell'indirizzo, ancor prima che venga 
      premuto il tasto Invio, le coordinate Gps e molto altro. E 
      attraverso i diversi servizi cloud, cui aziende e pubbliche 
      amministrazioni affidano i nostri dati.
Vendendo in 
      rapidissime aste automatizzate (Real Time Bidding) le previsioni 
      comportamentali dedotte da tutti dati così raccolti, Google 
      fattura diverse centinaia di milioni di dollari ogni giorno. 
      Attraverso AI programmate statisticamente con quegli stessi dati, 
      determina in tempo reale quali risultati di ricerca proporre a 
      ciascun utente, quali notizie presentargli, quali video 
      suggerirgli per massimizzarne l'engagement così come per 
      orientarne consumi e opinioni.
Fondamentale per il 
      funzionamento del capitalismo di sorveglianza è la cancellazione 
      del canale di comunicazione dalla coscienza degli utenti 
      connessi. Quando video-chiamiamo un amico, viviamo l'esperienza 
      di un incontro alla finestra, siamo consapevoli della sua 
      presenza ma il canale di comunicazione ci appare come un mezzo 
      neutrale e trasparente. Questa percezione soggettiva 
      dell'incontro è però fallace: da un punto di vista oggettivo la 
      teleconferenza sostituisce l'incontro, perché ciascuno dei 
      “partecipanti” guarda e parla a un oggetto che solo 
      incidentalmente riproduce i suoni e le immagini inviate dagli 
      altri. Potrebbe alterarli. E infatti li altera in molte 
      occasioni, ad esempio quando gli chiediamo di sfumare lo sfondo 
      dietro di noi.
L'automatismo infatti non veicola, ma media la comunicazione. 
      Fino all'invenzione della scrittura, la condivisione delle 
      informazioni avveniva esclusivamente in modo sincrono: due o più 
      persone dovevano incontrarsi in un luogo e condividere 
      l'esperienza che dava origine all'informazione o metterla in 
      comune attraverso un linguaggio sufficientemente espressivo. 
      Un'informazione è infatti una esperienza soggettiva di pensiero 
      comunicabile che esiste solo nella mente umana di cui entra a far 
      parte. Con l'invenzione della scrittura, l'uomo ha imparato a 
      comunicare in modo asincrono, attraverso rappresentazioni 
      simboliche trasferibili e interpretabili da altri esseri umani. 
      Nacque così il dato, dal participio passato di dare, ovvero una 
      rappresentazione di un'informazione che può essere appunto data, 
      trasmessa ad altri, condivisa con esseri umani lontani nel tempo 
      o nello spazio. Il dato è una delle possibili rappresentazioni di 
      un'informazione, impressa su un supporto fisico e interpretabile 
      dall'uomo.
In un sistema cibernetico i dati svolgono 
      moltissime funzioni, a seconda degli automatismi che li 
      scambiano, degli organismi che li producono e del contesto 
      interpretativo in cui vengono usati. Analizzando la DaD da questa 
      prospettiva dobbiamo anzitutto distinguere i contenuti dai dati 
      personali.
I contenuti rappresentano e trasmettono la cultura 
      di una comunità. Poiché sono sempre espressione consapevole di 
      almeno un individuo, costituiscono la tipologia di dato più 
      antica e meglio integrata nella cultura umana e sono 
      regolamentati da categorie giuridiche consolidate come la libertà 
      di espressione, il lavoro e il diritto d'autore. Ogni test, ogni 
      presentazione, ogni schema e ogni rapporto caricato su Google 
      Classroom da ogni insegnante, così come ogni compito caricato da 
      ogni studente, costituisce un contenuto ceduto a Google. I 
      contenuti espressi dai membri di una comunità determinano, da 
      sempre, la cultura condivisa di quella stessa comunità. Come 
      tali, attraggono persone che fanno parte di tale comunità ma 
      attraggono anche spesso persone verso quella comunità: si pensi 
      ad esempio a una biblioteca universitaria. Nel contesto 
      scolastico però gli studenti e i docenti che fanno parte di una 
      classe sono di fatto costretti a utilizzare lo strumento 
      prescelto: lo studente che pretendesse di utilizzare un canale 
      più riservato e protetto subirebbe una enorme peer-pressure da 
      compagni e insegnanti che non ne comprenderebbero le ragioni.
Ma la stragrande maggioranza dei dati raccolti da Google 
      appartiene alla categoria dei dati personali, ovvero dati che 
      descrivono aspetti e comportamenti di una persona. I dati 
      personali non vengono espressi consapevolmente da un soggetto che 
      intende comunicarli, ma sono emessi inconsapevolmente da quel 
      soggetto e registrati da terze parti, tipicamente attraverso 
      software preposti. Possono essere classificati in due grandi 
      categorie: identificativi e dati descrittivi.
Gli 
      identificativi permettono la correlazione fra i profili e le 
      attività di una persona, nonché la mappatura delle sue relazioni 
      con altre persone identificabili. Possiamo distinguerli lungo un 
      asse spaziale (locali o globali) e lungo un asse temporale 
      (temporanei o permanenti).
L'utilità cibernetica degli 
      identificativi dipende dai dati che permettono di correlare. Gli 
      identificativi globali permettono di correlare dati raccolti in 
      tutto il pianeta, mentre gli identificativi locali permettono di 
      correlare solo dati emessi in un determinato luogo o contesto. 
      Analogamente gli identificativi permanenti permettono di 
      correlare dati raccolti lungo tutta l'esistenza del soggetto cui 
      sono attribuiti, mentre i dati temporanei permettono di correlare 
      solo i dati raccolti in un periodo limitato.
Possiamo 
      immaginare i dati personali descrittivi come una serie di 
      predicati associati a un identificativo tramite una funzione 
      probabilistica. Le misurazioni dirette hanno una probabilità pari 
      a uno, la certezza, mentre le deduzioni che è possibile trarne 
      hanno una probabilità compresa fra zero e uno. Quando ci rechiamo 
      in un luogo con un cellulare Android connesso alla rete dati, 
      diverse organizzazioni che producono le App autorizzate 
      all'accesso alla posizione possono riceverne orario e coordinate 
      Gps. Tale dato viene poi correlato con tutti gli altri dati 
      ricevuti da quello stesso utente. In questo modo è possibile 
      dedurre probabilisticamente altri dati sull'utente stesso, come 
      abitudini, frequentazioni, fede religiosa, condizioni mediche e 
      moltissime altre informazioni “derivate” esclusivamente dai 
      luoghi visitati e da chi altri vi si trova in quell'orario.
Grazie alla DaD, Google ha potuto raccogliere moltissimi dati 
      su studenti e insegnanti e, dato l'uso prevalente di nome e 
      cognome (identificativi globali e permanenti) nelle credenziali 
      di autenticazione, potrà facilmente correlarli con tutti gli 
      altri dati acquisiti in passato o in futuro su di essi. Un elenco 
      esaustivo anche solo delle tipologie di dati personali ottenuti 
      da Google durante la DaD sarebbe impossibile: dati biometrici 
      come impronta vocale e feature facciali; dati economici, sociali 
      e culturali deducibili dalle abitazioni riprese durante le video 
      lezioni; dati medici condivisi e discussi “in classe”… Talvolta i 
      dati raccolti riguardavano terzi, come contatti o familiari 
      positivi che determinavano l'avvio di un periodo di quarantena. E 
      naturalmente i voti, le relazioni con i compagni, i livelli di 
      apprendimento, le competenze linguistiche, soglie di attenzione o 
      di stress e molto molto altro.
Nell'indifferenza generale, 
      nessuna scuola ha adottato le misure tecniche previste dal Gdpr 
      per la protezione degli studenti: evitare l'uso della telecamera, 
      adottare pseudonimi da cambiare ogni tre mesi, fornire Vpn 
      scolastiche per evitare l'identificazione via Ip… Questo avrebbe 
      ridotto notevolmente i danni di queste piattaforme EdTech, ma 
      avrebbe comportato costi economici e organizzativi notevoli, tale 
      da rendere nettamente più convenienti soluzioni alternative 
      basate sul software libero.
Ad esempio il Politecnico di 
      Torino, invece di affidare studenti e docenti ai BigTech 
      selezionati dal Ministero, ha deciso di potenziare le proprie 
      infrastrutture informatiche dedicando sei server a un cluster 
      oVirt di 50 macchine virtuali su cui installare Big Blue Button. 
      Con questo stack completamente open source, ha permesso a oltre 
      2mila docenti di erogare 800 corsi per oltre 30mila studenti, 
      basandosi solo su risorse e competenze interne. Il tutto con un 
      costo annuale di meno di 80 centesimi a studente e un risparmio 
      previsto rispetto alle offerte cloud di oltre un milione di euro 
      in 5 anni.
Analogamente, già durante il primo lockdown il 
      consorzio universitario Garr ha potuto offrire gratuitamente alla 
      cittadinanza il sistema di videoconferenza Jitsi Meet, 
      installandolo sulla propria infrastruttura cloud federata, 
      realizzata esclusivamente con software open source.
Queste 
      esperienze hanno dimostrato che laddove si investa nelle 
      competenze, gestire autonomamente le proprie infrastrutture 
      informatiche non è solo possibile, ma più economico che affidarle 
      ad aziende multinazionali. Purtroppo queste competenze non si 
      improvvisano e sebbene sia il Politecnico di Torino che il 
      Consorzio Garr abbiano documentato ampiamente i propri sistemi e 
      si siano più volte resi disponibili per aiutare altre università 
      e pubbliche amministrazioni a riprodurne l'infrastruttura, la 
      loro offerta è stata ignorata.
Così tutti i dati raccolti per mesi su otto milioni di futuri 
      elettori potranno essere usati per orientare in modo 
      impercettibile i risultati delle loro ricerche, le loro opinioni, 
      i loro acquisti nonché ovviamente le ricerche che li 
      riguardano.
Per comprendere come, è importante conoscere i 
      meccanismi di base dell'AdTech.
Fino al secolo scorso, un 
      messaggio pubblicitario o politico doveva essere diffuso, 
      identico, su molti canali di comunicazione di massa per poter 
      raggiungere il maggior numero possibile di persone sensibili al 
      contenuto. Questo costringeva il mittente a inviare pochi 
      messaggi coerenti fra loro. Attraverso gli accurati modelli 
      previsionali estratti dai dati degli utenti è invece possibile 
      inviare messaggi studiati per colpire l'attenzione e orientare il 
      comportamento di una specifica categoria di persone e inviarli 
      solo a quelle più sensibili al loro contenuto. Questo rende 
      pubblicità e propaganda politica molto più efficaci perché 
      studiati sulla base delle debolezze, dei bisogni, delle paure e 
      dei valori di ciascuno di noi.
Ogni nuovo bit acquisito 
      duplica l'utilità di quelli già disponibili perché duplica la 
      probabilità di selezionare messaggi efficaci a orientare il 
      comportamento del ricevente, dimezzandone al contempo il costo. 
      Si tratta dunque di un potere a crescita esponenziale, 
      enormemente maggiore di quello conferito dal denaro, che cresce 
      in modo lineare con ogni centesimo. Dunque, al di là dello 
      straordinario ritorno economico, Google ha ottenuto un potere di 
      condizionamento molto più subdolo ed efficace su un intera 
      generazione, un condizionamento culturale e politico.
Per stabilizzare questo afflusso di dati, Google ha anche 
      sviluppato Practice Set, un plug-in per Classroom che promette, 
      attraverso una nuova tecnologia di apprendimento adattivo, di 
      “dare agli insegnanti il tempo e gli strumenti per meglio 
      supportare i propri studenti” permettendogli di “sapere cosa 
      stiano pensando” e fornendo a ciascuno studente “un tutor 
      virtuale 24 ore su 24”.
In sostanza i contenuti e i dati 
      personali raccolti da Google durante la DaD in Italia e 
      all'estero sono stati utilizzati per programmare statisticamente 
      “intelligenze artificiali” che suggeriranno automaticamente 
      “materiali didattici personalizzati” a ciascuno studente secondo 
      un nuovo “modello educativo” che viene venduto come 
      “Autopedagogia”. Si chiude così il cerchio tracciato dal 
      Ministero dell'Istruzione.
Le prossime generazioni di italiani 
      andranno a scuola da Google, che non si limiterà a sorvegliarle e 
      profilarle accuratamente, ma deciderà anche cosa ogni studente 
      dovrà studiare sulla base di tali profili. E ovviamente dei 
      propri interessi. In cambio, gli insegnanti, liberati 
      dall'incombenza di un rapporto personale con la classe, potranno 
      utilizzare il tempo risparmiato per istruire molti più alunni, 
      venendo meno l'argomento cardine contro le “classi pollaio”. Una 
      didattica senza educazione, che normalizzerà una sorveglianza di 
      massa di cui nessuno vorrà più fare a meno.
Appare dunque tristemente ingenuo il Requiem per gli studenti di Giorgio Agamben: nessuno ricorderà gli insegnanti che si sono opposti alla DaD, se la storia, anch'essa personalizzata, la scriveranno i software dei vincitori.